Novembre 2009, 3 incontri per sostenere lo sport come strumento di pace e sviluppo

Dopo aver utilizzato lo sport in Zambia per un cambiamento sociale ed un rinforzamento della società civile ed in kenya come strumento di riconciliazione e peace building in una società divisa tra due delle più grosse etnie; dopo aver approfondito l’argomento con una tesi sul potere dello sport nel processo di riconciliazione in situazione di post conflitto, non mi lascio sfuggire tre tra i più importanti appuntamenti internazionali su “sport for development and peace” (SDP), tutti nel mese di novembre. Il concetto è relativamente nuovo, l’utilizzo dello sport in interventi umanitari e di cooperazione allo sviluppo.

RHEINSBERG
Il primo seminario è a Rheinsberg, a nord di Berlino, dal 2 all’8 novembre, un seminario internazionale tenuto da ICCSPE (International Council of Sport Science and Physical Education) su come utilizzare lo sport in interventi di post-disastro. Sei giorni di training con partecipanti da 22 nazioni dai 5 continenti per approfondire, sia nella teoria che nella pratica, come implementare programmi sportivi psico-sociali nelle prime fasi d’intervento umanitario dopo un disastro causato da fattori naturali o più tristemente da conflitti armati. Gente da tutto il mondo, sia aid workers con esperienza sul campo, sia giovani studenti curiosi di vedere come lo sport possa essere di aiuto in queste situazioni . Le tematiche trattate sono tante ed altrettanti sono i relatori che si susseguono durante le sei giornate, relatori prettamente accademici e relatori direttamente dal campo.

Ian Pickup, della Roehampton University a Londra, tiene una sessione su come insegnare e come imparare in una situazione di crisi, enfatizzando il messaggio che non esiste un approccio unico e vincente all’utilizzo dello sport ma che è d’obbligo il contestualizzare il metodo e capire la situazione prima di intervenire.

Ken Black, della Loughborough University, Leicestershire, UK, spiega l’inclusione sociale e l’attività sportiva rivista per persone con forme di disabilità, la cosiddetta attività fisica adattata. L’inserire questo concetto all’interno di un seminario su interventi post-disastro può suonare strano ma Ken suggerisce che se la società venisse organizzata come se la disabilità fosse solo una diversa abilità, come l’essere mancini, o come lo scrivere da destra a sinistra, allora forse ci sarebbero molte meno discriminazioni e stigmatizzazioni. Lo stesso seminario è stato tenuto in un hotel studiato nel minimo dettaglio per dare ogni confort a persone “diversamente abili”.

Jaleh Saboktakin, una dolcissima ragazza iraniana, ha lavorato durante la fase di emergenza e post emergenza in Iran dopo il terremoto di Bam nel 2003 dove morirono più di 30.000 persone. Ha coordinato il progetto “Sport for Traumatized Children and Youth in Bam”, con lo scopo di migliorare il benessere psicosociale dei bambini e giovani colpiti dal disastro attraverso attività sportive. Durante la sua esposizione, lei e gli altri due iraniani presenti sono visivamente toccati dai ricordi, nel ripensare alla distruzione, al dramma di tutti quei morti e alle tante famiglie distrutte. Jaleh pone l’accento su come le attività ricreative e sportive, nonostante le difficoltà logistiche e culturali, abbiano aiutato bambini e giovani a ritrovare il sorriso, a ritornare a sperate per un futuro. Nello stesso tempo anche gli adulti si ritrovarono beneficiari indiretti delle attività avendo più tempo per dedicarsi alla ricostruzione senza dover pensare per un attimo ai figli.

Chiude poi le presentazioni l’unico speaker italiano, Andrea Brunelli, Università Degli Studi di Roma “Foro Italico”, ci conoscevamo già reciprocamente di nome, io sapevo del suo utilizzo delle attività sportive tra i giovani in Abruzzo dopo il terremoto, ed in Tailandia dopo lo tsunami con un’importante organizzazione non governativa specializzata in questo settore “Right to Play”; lui sapeva della mia tesi sull’utilizzo dello sport nel processo di riconciliazione in situazione post-conflitto. Un mondo molto piccolo, soprattutto in Italia, e così i nomi girano in fretta. Un mondo che ha bisogno di ricercatori per sviluppare una best practice, e di operatori per verificare quanto bene possa fare lo sport. Nei prossimi anni è prevedibile uno sviluppo dell’offerta formativa universitaria per figure professionali specifiche.

STRASBURGO
Lasciata Berlino volo in treno a Strasburgo, la stessa sera comincia il seminario sul ruolo delle associazioni sportive nel promuovere la partecipazione attiva dei giovani e il miglioramento dello scambio interculturale. I partecipanti, tutti tra i 18 e i 35 anni, attivi in associazioni e/o progetti sportivi, arrivano da tutta Europa, o meglio da molti dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa, quindi un’area geografica molto più ampia: Azerbaijan, Georgia, Russia, Romania, Estonia, Polonia, Francia, Germania, Portogallo, Norvegia, Paesi Bassi, Turchia, Libano……alcuni tra i paesi presenti, and Italy of course! Il corso è infatti organizzato dal Consiglio d’Europa (Direzione Gioventù e Sport) nel quadro dell’EPAS (Accordo sullo sport).
Lo scopo dell’incontro è duplice: stilare delle raccomandazioni per la Direzione gioventù e sport del Consiglio d’Europa e creare possibili network tra le associazioni presenti. Come risultato dei lavori di gruppo nelle raccomandazioni viene suggerita una collaborazione con il settore del no profit e delle ONG per sviluppare il loro lavoro all’interno di “Youth and sport across Europe”. Per utilizzare lo sport come strumento di successo per un cambiamento sociale è essenziale utilizzare la grande esperienza dei due settori – giovani e sport – in relazione alla partecipazione giovanile e allo scambio interculturale. Contatti e possibili network se ne creano molti, idee, progetti, condivisione di obiettivi. Con Ioana, studentessa master universitario su management sportivo si discute la possibilità di svolgere degli stage in Zambia; conosco David, coordinatore di alcuni progetti di KickFair, organizzazione tedesca con progetti sia in Germania che in alcune realtà africane con partner locali, che usa il calcio come metodo educativo di apprendimento, dove ai giovani viene data l’opportunità di partecipare attivamente nella creazione di un loro ambiente sociologico, con discussioni costuttive post partita. L’idea mi è piaciuta subito e forse nasceranno delle collaborazioni. E così gli altri partecipanti. Mentre racconto di queste esperienze ad alcuni vicini in uno dei miei viaggi in treno, vengo anche a conoscenza del CSI, il Centro Sportivo Italiano, nato già nel 1944, che alla fine propone un’idea simile a livello nazionale con qualche progetto internazionale.

Ma allora cosa c’è di nuovo? C’è l’interesse della comunità internazionale, delle Nazioni Unite, l’interesse delle grandi organizzazioni sportive e sociali, l’interesse di qualche governo e delle università, l’interesse delle imprese profit e no profit a collaborare tra di loro per un crescente discorso di corporate social responsibility e accountability tradotta con responsabilità sociale delle imprese. C’è la consapevolezza che non è sufficiente concentrarsi su aiuti visibili, tangibili, per ottenere un miglioramento duraturo della situazione ma è altrettanto importante lavorare sull’aspetto psicologico e sociale delle persone in situazione di difficoltà e disagio. La partecipazione attiva dei giovani nel cambiamento della società è vista come valore aggiunto e non come impiccio a decisioni dei grandi. Lo sport può dare un enorme contributo sia nel recuperare e mantenere un benessere fisico e mentale, sia nello sviluppare l’apprendimento di capacità extra sportive, sia nel coinvolgere i giovani nei processi decisionali.

MONTECARLO
Tutto questo interesse della comunità internazionale è ben rappresentato anche dal forum annuale tenuto a Montecarlo dall’organizzazione “Peace and Sport” , sotto l’alto patronato di Principe Alberto II di Monaco , la cui missione è promuovere una pace sostenibile attraverso l’educazione dei giovani, usando i valori dello sport. Al forum hanno partecipato oltre 400 persone, governi, organizzazioni internazionali, confederazioni sportive internazionali, il comitato olimpico internazionale ed i nazionali, atleti campioni mondiali di sport e di vita, ONG, università, imprese, la stampa, e osservatori. Nonostante l’evidente ed imbarazzante contrasto tra la ricchezza estrema del posto in cui si è svolto il forum e il concetto di aiutare le zone di post conflitto e/o molto povere – normale chiedersi quanto si sarebbe potuto investire in progetti concreti invece che organizzare questo forum – si sono create delle serie opportunità per uno sviluppo futuro di progetti sportivi con fine sociale, grazie a scambi di idee, ad incontri vis à vis che rendono tutto più facile e grazie a qualche partnership già firmata.
Il 2010 sarà una grande opportunità per attivisti e operatori in “sport for development and peace” , Coppa d’Africa e mondiali in Sudafrica anche se l’attacco alla squadra del Togo dimostra immediatamente l’altra faccia della medaglia.

Un mese ricco di incontri, ricco di nuove conoscenze, con tanti scambi di vedute e nonostante arrivassimo da tutta Europa e da tutto il mondo, parlavamo la stessa lingua, la legge ed i valori dello sport, dello sport per tutti, non dello sport che spinge a vincere a tutti i costi, ma dello sport come strumento di pace, di sviluppo e di cambiamento e coesione sociale.

Ed eccomi qui, con in lontananza il Kafue River, a chiudere l’articolo, per poi andare a rileggermi dopo più di sette anni, con nuova consapevolezza e nuova conoscenza d’Africa e sport, il libro di Kapuscinski “La prima guerra del football, e altre guerre di poveri”. Qui questo grande reporter polacco raccoglie le sue esperienze degli anni ’60 e ’70 tra Ghana ed Congo, Tanganica, Sud Africa degli afrikaner, Algeria, Nigeria, Cile, ed ancora i racconti della guerra tra Siria ed Israele e dell’occupazione turca dell’isola di Cipro. Ma soprattutto descrive l’Honduras ed El Salvador e la famosa “Guerra del Football”, il brevissimo conflitto combattuto nel 1969 conosciuto anche come Guerra delle cento ore” utile per ricordare che non è lo sport in sé ad essere buono o cattivo, educativo o diseducativo, ma è il mondo circostante ad esserlo, nel bene e nel male.